Immagino di essere un cronista di guerra, inviato sul fronte occidentale durante la Prima guerra mondiale.
Negli ultimi giorni del 1916, dall’Occidente arrivò una richiesta che desideravo da almeno due anni. Io, Adriano Malizia, ero stato incaricato di vivere per un giorno in una trincea tedesca per poi pubblicare un documento dove avrei fatto capire ciò che i soldati vivono in guerra.
Arrivato sul confine dello Stato tedesco, dei generali mi chiesero i documenti e perché fossi lì. Dopo avermi riconosciuto, poiché erano stati avvisati del mio arrivo, i generali mi fecero passare e subito mi resi conto del clima e dell’atmosfera che c’era in quel posto: il cielo nuvoloso e perennemente grigio, il terreno più bucato di un formaggio svizzero e i soldati che facevano avanti e indietro per portare le provviste in trincea.
Il mio autista mi portò in una sorta di lavanderia dove vidi, appena entrato, tre file lunghissime di soldati in biancheria intima che aspettavano di ricevere il completo militare. La cosa che mi colpì di più fu il fatto che non c’era nemmeno un soldato con una ruga in faccia: erano tutti giovanissimi, con un grande entusiasmo di andare in guerra.
Mi fecero indossare una divisa di un verde molto spento e con varie pezze e ricuciture qua e là. Ci fecero marciare tutti dritti e in silenzio fino alla trincea.
Arrivato lì, l’ansia e la paura mi colpirono profondamente: cadaveri ovunque, soldati e generali lerci, sporchi di fango e alcuni anche di sangue, una puzza indecente di ratti che mi fece venire i conati di vomito.
I soldati avevano vari incarichi, come recuperare le piastrine dei compagni morti, ricaricare le armi nei momenti di tregua, svuotare i fossati allagati dalla continua pioggia.
Nel momento più tranquillo un’esplosione fortissima ci arrivò addosso. I generali, sorpresi, ci ordinarono di ripararci nel bunker.
La situazione era la peggiore in cui mi potessi trovare: ero agitato, spaventato, a momenti mi sentivo svenire non solo per la paura, ma anche per la puzza che impregnava ogni cosa.
I bombardamenti sopra la nostra testa non si fermavano; si sentivano i sodlati francesi che parlavano e davano ordini e il nostro generale che ci diceva di rimanere calmi e seguire i suoi ordini.
Quando la situazione si placò, il generale ci diede il consenso di uscire dal bunker; fuori era un disastro: fumo ovunque, il sudore che mi lavava letteralmente il volto non mi permetteva di vedere chiaramente intorno. Un componente dell’esercito gridò il mio nome più volte fino a quando non mi trovo e mi disse che era meglio che io me ne andassi, per la mia incolumità.
Mi accompagnò fuori dalla trincea e tornai a casa con un trauma profondo. Dell’entusiasmo che avevo inizialmente provato non c’era più traccia.
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